La scena inizia con un cumulo di macerie: sono i cocci di una vita che si frantuma, di un mondo che ci crolla addosso…. o il suolo di un pianeta sconosciuto?
Sotto questa coperta di macerie c’è Matilde (adulta?) che dorme.
Dopo un tempo si sente: “mamma?”.
Prima pianissimo, come a chiamare la mamma senza disturbarla, poi sempre più forte, fortissimo, che la mamma non c’è più e tu hai cinque anni, ti sei persa, e non la trovi.
Allora la vai a cercare: Ground control to Major Mom[1].
Questo spettacolo non parla della morte, parla di noi dopo la morte.
Di chi resta, e di chi “va in cielo” come ci dicevano da piccoli, e compie quel viaggio misterioso e incomprensibile per chi resta solo sulla terra.
Questo spettacolo parla di una solitudine generazionale:
Matilde ha 43 anni e non ha figli – per una menopausa anticipata, perché è omosessuale, perché non ha trovato un compagno stabile, perché la tecnologia che glielo permetterebbe anche da sole la perplime, perché aderisce al movimento di estinzione volontaria…
Matilde non è più figlia, ma nemmeno madre, né mai lo sarà.
Questo spettacolo parla delle responsabilità che sommergono, della grottesca burocrazia post-mortem, di un dolore che diventa protagonista e che riporta all’infanzia.
Ma Matilde è una donna adulta, e c’è ALEXA – l’aiutante magico – che le ricorda tutto quello che deve fare.
Infine, dopo molteplici affondi in un passato che è presente, al confine tra flashback, dialoghi con un fantasma e rielaborazione della memoria, Matilde – non più figlia, non madre – ci racconta quell’incubo che incubo non è.
[1] David Bowie, Space Oddity in Space Oddity, 1969, Philip Records – Lì era “Major Tom”.