Il Grande vuoto indaga l’ultimo pezzo di strada che una famiglia percorre prima di svanire nel vuoto, affidando alla tragedia forse più cupa del teatro shakespeariano, “Re Lear”, il compito di trasformare il dolore attraverso il gioco teatrale. Questo dissolversi, è amplificato dal progressivo annientamento delle funzioni cerebrali della madre, una ex attrice, colpita da una malattia neurodegenerativa alla quale rimane progressivamente solo il ricordo del suo cavallo di battaglia, un monologo tratto da Re Lear.
Un prosciugarsi a cui fa eco lo svuotarsi di esseri umani dalla casa di famiglia, che al contrario si popola di oggetti, di ricordi che aumentano, pesano e riempiono tutte le stanze. Come scrive Linda Dalisi “il vuoto non è il nulla, è uno stato fisico che gorgoglia”. Il lavoro trova risonanze e spunti in “Una donna” di Annie Ernaux, e nel romanzo “Fratelli” di Carmelo Samonà e in “I cura cari” di Marco Annicchiarico. È il tentativo di raccontare una grande storia d’amore: quella tra una madre, i suoi figli e un padre che muore.
Nello spettacolo, la narrazione teatrale si contamina con il video per raccontare che, grazie alle fotocamere e i loro video ad alta risoluzione con visione notturna fino a trenta piedi, un* figli* può continuare a vivere la propria vita ed entrare senza essere visto in quella del proprio genitore. Guardare la madre giocare al solitario, fissare la televisione spenta, parlare con persone che non esistono, non farsi il bidet, piangere, stare seduta e ferma sul bordo del letto, passare la notte a tirare fuori dai cassetti fotografie, pezzi di carta, mutande sporche, per poi rimetterli dentro. Le usano per i cani ma la madre non ha ancora iniziato ad abbaiare.
«Tante le domande che ci hanno spint* a sprofondare in questa materia artistica, a addentrarci in questa ricerca su cosa rimane di noi, e se continua ad esistere qualcosa di quello che siamo stat* mentre ci approssimiamo alla fine della vita. Ma una su tutte è forse la più adatta a questo lavoro ed è quella letta in un fumetto dell’autrice Giulia Scotti: “il punto è trasformare il dolore in bellezza. Ci riusciremo ancora?”» Fabiana Iacozzilli