Una persona può passare la sua vita a fare lo stesso lavoro, stare nella stessa relazione, vivere nella stessa città, senza mai farsi domande. Poi a un certo punto fa come un passo indietro,
o di lato, si guarda da fuori e si chiede: perché sono qui? Quand’è che ho deciso che questo sarebbe stato il resto della mia vita?
Possiamo dirci di essere qui – nel nostro lavoro, nella nostra relazione, nella nostra città, in questo supermercato bloccati improvvisamente davanti a uno scaffale nella scelta impossibile tra due zuppe surgelate identiche – come conseguenza delle nostre storie passate, delle biografie, di dove siamo nati, delle scelte che abbiamo fatto nelle nostre vite fino a questa sera (“siamo qui perché è successo questo”); ma possiamo percepirci anche come punto di partenza del resto della nostra vita. E per passare dalla prima alla seconda modalità esistenziale, è necessario fare la cosa che come esseri umani siamo meno organizzati per fare: cambiare.
Il cambiamento fa paura, risveglia la nostra parte più fragile e conservatrice, che ha una solida lista di buone ragioni: “ormai è troppo tardi”; “ho investito troppo”; “non saprei cos’altro
fare”; “da dove ricomincio”. Com’è possibile aprire un dialogo con questa parte di noi?
“Tutta la vita” è il primo spettacolo di una trilogia di lavori che avrà come tema tre domande impossibili: in questo spettacolo il centro è Come si vive con sé stessi nei prossimi due sarà Come
si vive con gli altri e Che senso ha una vita con la morte alla fine. Sono domande quasi scomparse dal tempo presente. Crediamo che il teatro abbia la possibilità di riportarle al centro: alla
rilevanza, e alla conversazione. Abbiamo il diritto e il dovere di negare la percezione di poter vivere tante vite, di dirci che questa ormai è andata così, ma nella prossima faremo tutto in
modo diverso. La vita è una, ed è sempre tutta alle nostre spalle: è sempre tutta davanti a noi.